IL
MANIFESTO DEL TERZO TEATRO (Eugenio Barba, 1976 – per gentile concessione dell’Odin Teatret) |
Esiste,
in molti paesi del mondo, un arcipelago teatrale che si è formato in questi
ultimi anni, pressoché ignorato, sul quale poco o nulla si riflette, per il
quale non si organizzano festival né si scrivono recensioni.
Esso
sembra costituire l’estremità anonima dei teatri che il mondo della cultura
riconosce: da una parte il teatro istituzionale, protetto e sovvenzionato per
i valori culturali che sembra tramandare, viva immagine di un conforto
creativo con i testi della cultura del passato e del presente - oppure
versione “nobile” dell’industria del divertimento.
Dall’altra
parte il teatro d’avanguardia, sperimentale, di ricerca, arduo o iconoclasta,
teatro dei mutamenti, alla ricerca di una nuova originalità, difeso in nome
del necessario superamento della tradizione, aperto a ciò che di nuovo
avviene fra le arti e nella società.
Il
Terzo Teatro vive ai margini, spesso fuori o alla periferia dei centri e
delle capitali della cultura, un teatro di persone che si definiscono attori,
registi, uomini di teatro, quasi sempre senza essere passati per le scuole
tradizionali di formazione o per il tradizionale apprendistato teatrale, e
che quindi non vengono neppure riconosciuti come professionisti.
Ma
non sono dilettanti. L’intero giorno è per loro marcato dall’esperienza
teatrale, a volte attraverso ciò che chiamano training, o attraverso
spettacoli che debbono lottare per trovare il loro pubblico. Secondo i tradizionali
metri teatrali, il fenomeno può apparire irrilevante. Da un punto di vista
diverso, però, un Terzo Teatro lascia pensare.
Isole
senza contatto l’una con l’altra, in tutta Europa, in America del Sud, in
America del Nord, in Australia, in Giappone, dei giovani si riuniscono e
formano dei gruppi teatrali che si ostinano a resistere.
Ma
possono sopravvivere soltanto a due condizioni: o salendo a sistemarsi nelle
regioni dei teatri riconosciuti, accettando le leggi della domanda e
dell’offerta teatrale, con i gusti correnti, con le preferenze degli ideologi
politici e culturali, con l’adeguarsi agli ultimi risultati acclamati; oppure
riuscendo, per la forza di un lavoro continuo, a individuare un proprio
spazio, per ognuno diverso, cercando l’essenziale a cui restare fedeli,
cercando di costringere gli altri a rispettare questa diversità. Forse è qui,
nel Terzo Teatro, che è dato di vedere, al di là delle motivazioni a
posteriori, ciò che costituisce la materia vivente nel teatro, un lontano
senso che attira al teatro nuove energie e che - malgrado tutto - lo fa
ancora essere vivo nella nostra società.
Diversi
uomini, in diverse parti del mondo, sperimentano il teatro come un ponte -
sempre minacciato - fra l’affermazione dei bisogni personali e l’esigenza di
contagiare con essi la realtà che li circonda.
Perché
proprio il teatro come mezzo di cambiamento, quando siamo coscienti che sono
ben altri i fattori che decidono della realtà in cui viviamo? Si tratta di
una forma di accecamento? Di una menzogna vitale?
Forse
per loro “teatro” è ciò che permette di trovare il proprio modo di essere
presenti - che i critici chiamerebbero “nuove forme espressive” - cercando
rapporti più umani fra uomo e uomo, nell’intento di realizzare una cellula
sociale in cui le intenzioni, le aspirazioni, le necessità personali
cominciano a trasformarsi in fatti.
Le
astratte divisioni che vengono confezionate e imposte dall’alto - scuole,
stili, linee di tendenza diverse: le etichette che mettono ordine nei teatri
riconosciuti - non possono qui servire. Non sono gli stili o le tendenze
espressive che contano. Quel che sembra definire il Terzo Teatro, quel che
sembra essere il comune denominatore fra gruppi e esperienze così differenti,
è una tensione difficilmente definibile.
È come
se bisogni personali a volte neppure formulati a sé stessi - ideali, paure,
molteplici impulsi che resterebbero torbidi - volessero trasformarsi in
lavoro, con un atteggiamento che all’esterno viene giustificato come un
imperativo etico, non limitato alla sola professione, ma esteso alla totalità
della vita quotidiana. Però, in realtà, essi pagano in prima persona il
prezzo della loro scelta.
Non
si può sognare soltanto al futuro, attendendo un mutamento totale che sembra
allontanarsi a ogni passo che facciamo, e che intanto lascia tutti gli alibi,
i compromessi, l’impotenza dell’attesa.
Si
desidera che subito una nuova cellula si formi, ma non ci si vuole isolare in
essa. Questo paradosso è il Terzo Teatro: immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione per trovare il coraggio di non fingere.
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